“JOAO SENZA PAURA”, IL PIÙ ROSSO DEI VERDEORO
Pier Paolo Pasolini ha definito il calcio “l’ultima manifestazione sacra del nostro tempo”. Da un maestro del giornalismo come Gianni Brera invece l’appellativo di “arte pedatoria” intesa ad identificare il gioco più bello del mondo.
Quante storie attorno al “Dio Pallone”, quanti atleti, personaggi, partite. Alcune sono valse una vita ed è valsa la pena di vivere quei minuti in cui il mondo intero si è fermato perché troppo impegnato a correre dietro ad un pallone.
Ci sono storie meno conosciute, forse perché i protagonisti non hanno vinto coppe e medaglie ed il loro nome non figura negli albi d’oro dei tornei più famosi. Ci sono storie con la “s” minuscola, solo perché non sono finite sui giornali. Sono state raccontate da chi le ha vissute direttamente o indirettamente o da chi le ha sentite narrare e le ha narrate a sua volta, così come facevano gli “aedi” ai tempi dell’antica Grecia o i bardi medievali.
Ci sono vicende di uomini, uomini ancor prima di calciatori o allenatori.
Se parliamo di “Brasile”, non possiamo non pensare al chiassoso carnevale, alle spiagge infinite ed assolate, alle sinuose bellezze color caffè. Ma anche a quelle maglie giallo oro, a quei tocchi di palla, a quel “fùtbol bailado”, a campioni leggendari come Pelè, Garrincha, Zico e Ronaldo, solo per citarne alcuni.
Joao Alves Jobin Saldanha nasce ad Alegrete, nello stato di Rio Grande do Sul, nel 1917. In Europa il ’17 è l’anno della Rivoluzione Russa, l’anno in cui nasce l’URSS. Chiamatelo segno del destino …
E’ il terzo di cinque figli in una famiglia di fazendeiros dove scorre sangue ribelle. Il pro-zio materno aveva guidato la riconquista di Rio Grande do Sul ai danni della Bolivia, il trisavolo materno aveva combattuto nella guerra di indipendenza dell’Uruguay. A 14 anni si trasferisce con la famiglia a Rio de Janeiro ed è qui che nasce la coscienza politica che lo porterà a militare tutta la vita nel Partito Comunista del Brasile.
Oltre alla politica le sue grandi passioni sono il samba e le donne (si sposò quattro volte) ma soprattutto il calcio. Gioca da professionista nel Botafogo ma la sua carriera termina presto a causa di un grave infortunio nel 1939. Lascia il Brasile e visita l’Europa, sconvolta dalla guerra. Vive a Parigi ed inizia a scrivere, alla fine della Seconda Guerra Mondiale trova lavoro in un’agenzia di stampa dove cura alcuni reportage sulle città distrutte dal conflitto e sui campi di sterminio dei nazisti.
Quando torna in Brasile inizia a scrivere su Fohla do Povo e diventa responsabile culturale dell’Unione della gioventù comunista. La polizia lo inserisce nella lista nera e lo arresta per la prima volta nel ‘47 al termine di un comizio. Il Botafogo gli viene in soccorso offrendogli il ruolo di direttore tecnico del club ma al Congresso brasiliano per la pace, il capo della polizia fa irruzione nella sala e Joao lo prende a sediate. Scoppia il finimondo, partono colpi di pistola ed un proiettile gli si infila nel polmone destro. Il destino gli salva la vita e lui sfiderà ancora il destino, fuggendo dall’ospedale dove è tenuto sotto sorveglianza dalla polizia.
Dopo la convalescenza assume una falsa identità e con il nome di Joao Souza, viene mandato a organizzare la lotta del sindacato a San Paolo, poi alla Scuola quadri di Praga, infine a Pechino con la Transiberiana per il primo anniversario della rivoluzione cinese. Si fa fotografare con Mao, è inviato di guerra in Corea, guida la guerriglia dei contadini nel Paranà. Coordina lo sciopero dei trecentomila di San Paolo.
Nel 1957 torna al mondo del pallone assumendo la guida tecnica del suo Botafogo con il quale vince il campionato statale di Rio de Janeiro con gente come Garrincha, Nilton Santos, Didì e Zagallo. Lascia la panchina del club carioca due anni dopo, in polemica con la dirigenza, e torna a fare il giornalista. La sua penna non risparmia nessuno, sia che si tratti di politici, sia di calciatori o allenatori. Quando è il momento delle critiche lui ci va giù pesante. Non tira di fioretto ma usa la sciabola. Per tutti è “Joao sem medo”, “Joao senza paura”. E’ un uomo i cui principi non hanno alcun prezzo.
L’allora presidente della Federcalcio brasiliana, Joao Havelange, futuro presidente della FIFA, lo chiama nel 1969 alla guida di una Nazionale che deve affrontare le partite di qualificazione ai campionati mondiali del 1970 che si disputeranno in Messico. Una scelta sorprendente, vista la scarsa esperienza di Joao Saldanha come allenatore.
Ma Havelange, con una selecao reduce dalla cocente eliminazione al primo turno alla Coppa del Mondo del ’66, vuole in qualche modo ingraziarsi la stampa e pertanto porta sulla panchina del Brasile un esponente di spicco della categoria. Allo stesso modo spera di zittire le sue pungenti parole ma si sbaglia di grosso. Il giorno dello stesso della sua conferenza di presentazione come nuovo Commissario Tecnico, Saldanha tira fuori dalla tasca un foglio e lo legge ai colleghi giornalisti che lo ascoltano stupiti. Sono i nomi degli undici titolari e delle riserve che vengono annunciati come la squadra che andrà in Messico. Nulla di clamoroso se non che manca ancora un anno e mezzo alla fase finale della Coppa del Mondo.
Saldanha imposta la squadra su un offensivo 4-2-4, facendo coesistere autentici funamboli come Pelè, Gerson, Tostao, Dirceu Lopes e Jairzinho. Il Brasile vince tutte le gare di qualificazione, sei su sei, segnando 19 gol e subendone appena 2.
Joao Saldanha però non piace ai colleghi allenatori che non lo considerano uno del mestiere e men che meno piace ad Emilio Garrastazu Medici, leader della dittatura militare che deteneva il potere in Brasile in quell’epoca. Le note ideologie marxiste del tecnico ovviamente sono poco gradite al dittatore e per giunta Saldanha fa poco o nulla per entrare nelle grazie del governatore. Le sue affermazioni sulla superiorità tecnica dei calciatori di colore rispetto ai bianchi, “Sono più veloci dei bianchi perché i loro trisavoli africani sono rimasti vivi sfuggendo ai leoni affamati. I neri non emergono nel nuoto perché per loro le piscine sono sempre chiuse”, o ancora le sue ammissioni su giocatori che facevano liberamente uso di marijuana o che avevano avuto rapporti omosessuali pesano come macigni su un governo di estrema destra. Oltretutto Saldanha si ostina a non convocare Dario in Nazionale, centravanti dell’Atletico Mineiro noto come Dadà Maravilha ed autentico pupillo del generale Medici. “Il presidente scelga i suoi ministri e lasci stare le cose serie”, gli replica seccamente “Joao sem medo” in un’intervista.
Sei vittorie su sei gare ufficiali, altrettante in amichevoli tra cui il 2-1 inflitto al Maracanà ai campioni del mondo in carica dell’Inghilterra, non saranno sufficienti a salvargli la panchina. Fatali nel 1970 le ultime due gare prima del mondiale messicano contro gli eterni rivali dell’Argentina, la sconfitta 0-2 patita a Porto Alegre, l’unica della sua gestione, e la successiva vittoria per 2-1 sempre sull’Albiceleste giudicata poco convincente. Una palese scusa con la quale Havelange, su precise direttive del governo brasiliano, dà il benservito a Saldanha ed affida la selecao a Mario Zagallo che da calciatore aveva vinto due titoli mondiali ed era stato allenato da Joao ai tempi del Botafogo.
Come andò quella Coppa del Mondo lo sanno tutti gli appassionati di calcio. Il 21 giugno 1970 il Brasile superò in finale l’Italia a Città del Messico, 4-1 il risultato, levando al cielo la terza coppa “Jules Rimet”. Sette vittorie in altrettante partite per quella che ancora oggi è ricordata come la più micidiale macchina da calcio di tutti i tempi. Zagallo portò Dario ai mondiali messicani ma non fu mai impiegato, il resto della squadra era quella del foglietto presentato da Saldanha ai giornalisti nella conferenza stampa di un anno e mezzo prima.
Joao andrà lo stesso in Messico e da cronista racconterà la vittoria del suo Brasile. Negli anni a venire racconterà tante altre storie, parlando di politica e di calcio, le passioni della sua vita. Il suo ultimo servizio è del 1990, i Mondiali in Italia in cui assiste alla bruciante eliminazione del Brasile ad opera dell’Argentina. Il cancro ai polmoni lo sta divorando da tempo. Scrive il suo ultimo articolo da un ospedale romano prima di entrare in coma. Muore il 12 luglio 1990 all’età di 73 anni.
Riposa a Rio de Janeiro, al cimitero San Joao Batista. Il suo feretro venne avvolto dalle bandiere del Partito Comunista del Brasile e del Botafogo. Nel suo Paese gli hanno intitolato tre strade, un collegio, uno stadio, la sala stampa del Maracanà e la pista ciclabile della spiaggia di Copacabana. Perché Joao Saldanha non sarà mai dimenticato dagli appassionati di calcio per aver costruito una squadra leggendaria. Perché “Joao senza paura” è ancora oggi un simbolo per chi ha lottato e continua a lottare per i propri diritti, per la gente delle favelas. Perché prima di ogni cosa è stato “duro e puro”. È stato un uomo.