“LIBERTÀ DIETRO LE SBARRE” DI CANDIDO CANNAVÒ
Candido Cannavò è una di quelle figure pubbliche che attraverso il giornale da lui diretto (“La Gazzetta dello sport”) ha fatto dello sport uno spettacolo, riuscendo a tinteggiare di colori positivi calcio e ciclismo, diventati ormai sport nazionali.
Ebbene, il suo libro è il risultato di una testimonianza di un volontario penitenziario “illustre”: lo storico direttore del più prestigioso giornale sportivo d’Italia ha scelto di fare ingresso nel penitenziario di Milano per mettersi al fianco di persone che hanno commesso sì dei reati nel passato, ma che ora stanno espiando la loro colpa traverso una pena decisa dallo Stato.
Il messaggio del libro è chiaro
I detenuti avrebbero il diritto di essere trattati meglio dallo Stato. Uso il condizionale perché gli strumenti impiegati per un reale recupero sono ben lontani da quanto sarebbe necessario.
Il trattamento riservato loro non è all’altezza di rispettare quel mandato costituzionale che dovrebbe trasformare la pena detentiva in un’occasione di rieducazione.
Secondo la legge, obiettivo ultimo di qualsiasi pena dovrebbe essere il reinserimento nella società così detta civile.
La pena non dovrebbe essere intesa come punizione, ma come risposta sociale alla costruzione di una nuova vita.
Ancora oggi tale prospettiva suona come una vera e propria sfida. Mi rendo conto che la materia è delicata. Il pensiero dei più è tutt’altro: chi sbaglia paga.
Hai commesso un reato? Ora è giusto che soffri.
Io rispetto le idee degli altri, ma allo stesso tempo mi piace cercare il confronto quando non le condivido.
Ebbene. La criminalità non è un fenomeno omogeneo. A fronte di tanti gesti che assumono grande rilevanza mediatica quando invece il danno è contenuto, nella nostra società sono commessi reati ben più dannosi, che l’opinione pubblica non riesce a evidenziare o mettere in luce. Il cittadino comune se la prende col povero disgraziato trattato come mostro, quando ignora il reale criminale che riesce a farla franca non solo dalle maglie della giustizia, ma anche dalle penne dei giornalisti. Esiste una criminalità nascosta di cui noi non ci accorgiamo neanche.
Chi finisce in galera?
Colui il quale non ha avuto un famiglia in cui crescere in modo sano, o non ha avuto un’adeguata istruzione oppure non è riuscito a tenersi un lavoro, perché la sua azienda è fallita oppure perché ingabbiato in uno stile di vita difficile da superare.
Tante e tante sono le condizioni sociali e personali che possono sottendere un’esperienza detentiva. Eppure, la risposta dello Stato è unica e univariata per tutti: nel medesimo istituto troviamo ospitato allo stesso modo il povero ragazzo col serial-killer più spregiudicato.
Ebbene Candido Cannavò getta un raggio di luce su tutto questo.
Parole di apprezzamento sono spese dal direttore-volontario per i tanti operatori che quotidianamente si confrontano con carenze logistiche per poter portare onorare al meglio la loro impresa: recuperare persone con passati tragici, che il più delle volte non hanno avuto la possibilità di scegliere il loro destino. Già, perché il comportamento antisociale non nasce dal niente, ma si insidia laddove vige la miseria, l’ignoranza e il maltrattamento del più debole. Giovani e adulti nati nella marginalità sociale e destinati a rimanerci per tutta la vita.
Conosco molto bene la materia, perché tra i tanti incarichi che ricopro come libero professionista, c’è anche quello di psicologo penitenziario, occupandomi di prevenzione al suicidio in carcere.
Sebbene l’opera sia scritta con un linguaggio che a tratti mi sembra un po’ troppo sdolcinato, ho apprezzato molto l’iniziativa del “direttore nazionale”, nonché volontario penitenziario.